Le microplastiche sono ovunque, anche negli alimenti e nell’acqua che beviamo, tanto che ogni settimana ne ingeriamo 5 grammi, il peso di una carta di credito. Dall’aria agli oceani, dall’oceano al suolo fino alla catena alimentare, il giro della plastica è lunghissimo, sia nello spazio sia nel tempo. Per questo due ricercatori dell’Università del Michigan, il professore Chris Ruf e la ricercatrice Madeline Evans, hanno sviluppato un metodo per monitorare la presenza delle microplastiche sulla superficie degli oceani. La tecnica permette di visualizzare le aree in cui si concentrano maggiormente e anche individuare eventuali punti di origine, sorgenti, di questi materiali.
I risultati sono pubblicati sulla rivista IEEE Transactions on Geoscience and Remote Sensing. Questa sorta di mappa, come un ”gps della plastica”, potrebbe essere molto utile anche alle organizzazioni che si occupano di ripulire le acque e di limitarne l’immissione negli oceani e all’Unesco, che sta cercando nuovi modi per tracciare gli spostamenti delle microplastiche.
Un nuovo metodo
I due autori, guidati da Chris Ruf, docente di Scienze dello spazio e del clima all’Università del Michigan, hanno rielaborato i dati del Cyclone Global Navigation Satellite System (CYGNSS), un sistema di otto microsatelliti lanciati nel 2016 con lo scopo di monitorare il clima e migliorare le previsioni nel caso di forti eventi temporaleschi. Il sistema, però, può anche essere utilizzato per scovare le microplastiche nelle zone abbastanza superficiali delle acque oceaniche.
Come? Dall’analisi della loro rugosità della superficie e della velocità del vento, spiegano gli scienziati: più ci sono ostacoli, infatti, fra cui oggetti anche piccolissimi in acqua, più la superficie apparirà diversa da come ci si aspetta. Gli autori confermano che quando anche in presenza di un vento forte l’oceano sembrava meno agitato del previsto e le acque erano più lisce in quella zona si accumulava una maggiore quantità di microplastica.
L’estate, la stagione più critica
Dai dati rielaborati attraverso la tecnica sviluppata dai due autori, è emerso che nella stagione calda (che corrisponde a periodi diversi dell’anno a seconda dell’emisfero in cui ci troviamo) varia anche la quantità di microplastiche sulla superficie degli oceani. Nei mesi estivi, infatti, cresce la loro concentrazione nell’Atlantico e nel Pacifico settentrionale. A giugno e luglio si registra un picco nella quantità di microplastiche presente nella Great Pacific Garbage Patch, la gigantesca isola di plastica nella parte nord dell’Oceano Pacifico, formatasi a partire dagli anni ’80 e probabilmente mantenuta e sostenuta anche dai movimenti della corrente oceanica del vortice subtropicale del Nord Pacifico.
Mentre nell’emisfero sud le concentrazioni massime di microplastica si rilevano nei mesi di gennaio e febbraio, nell’estate australe. L’estate, dunque, è la stagione preferita dalla plastica, in cui è più visibile negli oceani. Questo, come spiegano i ricercatori, è probabilmente dovuto al fatto che in inverno le correnti più forti rompono più facilmente le strutture più grandi composte da microplastiche, che vengono spinte in profondità. Insomma non è che in inverno ne produciamo di meno, semplicemente – e non è un dato positivo – i materiali si miscelano e si depositano meglio nei fondali.
Scovare le sorgenti
Oltre alle regioni di accumulo, come la Great Pacific Garbage Patch, con il modello creato è possibile anche individuare aree inquinate dalla plastica che diventano vere e proprie “sorgenti” di microplastica per gli oceani. Una di queste è il Fiume Azzurro, in Cina, anche noto come Yangtze, il terzo per lunghezza dopo il Rio delle Amazzoni e il Nilo. Già da tempo si ipotizzava che fosse una grande fonte di microplastiche, anche se oggi, come sottolineano i ricercatori, è possibile vederlo e misurarlo con la nuova tecnologia.
Fonte repubblica.it